Bang-bang-bang. L’anziana suora, armata di una sbarra di ferro, batteva con vigore sulla lamiera. «È mezzogiorno: il pranzo è pronto». Bang-bang-bang.
Anche il piccolo Lukamba, maglietta rossa con stampata sul petto la scritta “Val Brembana”, i capelli dritti all’insù da istrice selvaggio e felice, collaborava. Alla sua maniera. Battendo dei legnetti su due barattoli di latta, suonava la sua musica di bambino di sei anni, stando seduto per terra, accanto alla suora che annunciava l’apertura della mensa. Sorrideva orgoglioso l’orfanello, raccolto che era tutto ossa su una strada impolverata del Congo. Ma già allora, dopo un mese e mezzo di vita con le suore, aveva preso sei chili.
Il bel Jean Barawa, il nuovo arrivato, era triste, invece. Si era da poco diplomato meccanico specializzato, ma la tubercolosi ossea lo aveva tradito. E lo stava divorando lentamente. Il suo desiderio di lavorare in un’officina era perso, per sempre. La sua vita era finita, i suoi sogni, che Jean si immaginava sporchi di olio motore, erano sprofondati in un letto d’ospedale.
Bang-bang-bang. Dalle cucine usciva il carretto-carriola, con due ruote d’automobile, spinto a mano da un inserviente. Trasportava pentoloni fumanti, il pranzo per i ricoverati. Era lo stesso carretto-carriola-lettiga impiegato nel trasferimento dei malati gravi alle visite mediche e gli operandi in sala di chirurgia. Altri mezzi a Mosango non ne avevano.
Bang-bang-bang. Una ragazza, che non aveva vent’anni, cullava il suo bambino partorito da una settimana, facendo attenzione a non staccargli l’ago della flebo introdotto, chissà come, in quel braccino tutto pelle e ossa. «Il pranzo è pronto», ripeteva la suora, marcando il suo forte accento bergamasco. Quel giorno, come quello prima e quello dopo, il menù del “Centro sanitario di Mosango” prevedeva “mingolo” in umido con erbe stufate tipo spinaci e una bella spolverata di pili-pili, il peperoncino piccante. Il menù poteva cambiare con il “basololo” lessato. Comunque, sempre proteine della foresta: bruchi e larve che croccano in bocca, mi diceva la suora. Prelibatissimi al palato dei locali. Anche le suore italiane, negli anni, si erano adeguate. Facendo di necessità virtù.
Per mia fortuna, nella casa delle suore della congregazione delle Poverelle, che mi ospitava in quei giorni di visita nel capoluogo di Kikwit, i pasti richiamavano ancora una buona memoria di cucina italiana. Me la cavai con un bel piatto di spaghetti al pomodoro. Mi trovavo in uno sperduto luogo di quella che oggi è la Repubblica democratica del Congo. A 500 chilometri dalla capitale Kinshasa, dopo un viaggio sfibrante di due giorni e mezzo dentro un malconcio camion Fiat degli anni Cinquanta. Era lo Zaire distrutto dal famelico presidente-dittatore Mobuto sese-Seko, che si era mangiato tutto. Anche l’asfalto delle strade. Un Paese tanto ricco dei diamanti più grandi al mondo e di minerali pregiati, molti ancora da scoprire, ma altrettanto traboccante di pestilenza cronica, malattie e povertà.
Mosango era un luogo indefinito, un punto perso tra boscaglia e savana. Sorto negli anni Cinquanta, come lebbrosario e sanatorio antitubercolare, con il tempo era stato trasformato in Centro sanitario regionale. Con i suoi settecento posti letto e la buona volontà delle suore italiane delle Poverelle, era un faro nella notte della malattia e della medicina. Illuminava la solitudine e le speranze di un territorio vasto più di cento chilometri quadrati.
Il bel Jean Barawa, il nuovo arrivato, era triste, invece. Si era da poco diplomato meccanico specializzato, ma la tubercolosi ossea lo aveva tradito. E lo stava divorando lentamente. Il suo desiderio di lavorare in un’officina era perso, per sempre. La sua vita era finita, i suoi sogni, che Jean si immaginava sporchi di olio motore, erano sprofondati in un letto d’ospedale.
Bang-bang-bang. Dalle cucine usciva il carretto-carriola, con due ruote d’automobile, spinto a mano da un inserviente. Trasportava pentoloni fumanti, il pranzo per i ricoverati. Era lo stesso carretto-carriola-lettiga impiegato nel trasferimento dei malati gravi alle visite mediche e gli operandi in sala di chirurgia. Altri mezzi a Mosango non ne avevano.
Bang-bang-bang. Una ragazza, che non aveva vent’anni, cullava il suo bambino partorito da una settimana, facendo attenzione a non staccargli l’ago della flebo introdotto, chissà come, in quel braccino tutto pelle e ossa. «Il pranzo è pronto», ripeteva la suora, marcando il suo forte accento bergamasco. Quel giorno, come quello prima e quello dopo, il menù del “Centro sanitario di Mosango” prevedeva “mingolo” in umido con erbe stufate tipo spinaci e una bella spolverata di pili-pili, il peperoncino piccante. Il menù poteva cambiare con il “basololo” lessato. Comunque, sempre proteine della foresta: bruchi e larve che croccano in bocca, mi diceva la suora. Prelibatissimi al palato dei locali. Anche le suore italiane, negli anni, si erano adeguate. Facendo di necessità virtù.
Per mia fortuna, nella casa delle suore della congregazione delle Poverelle, che mi ospitava in quei giorni di visita nel capoluogo di Kikwit, i pasti richiamavano ancora una buona memoria di cucina italiana. Me la cavai con un bel piatto di spaghetti al pomodoro. Mi trovavo in uno sperduto luogo di quella che oggi è la Repubblica democratica del Congo. A 500 chilometri dalla capitale Kinshasa, dopo un viaggio sfibrante di due giorni e mezzo dentro un malconcio camion Fiat degli anni Cinquanta. Era lo Zaire distrutto dal famelico presidente-dittatore Mobuto sese-Seko, che si era mangiato tutto. Anche l’asfalto delle strade. Un Paese tanto ricco dei diamanti più grandi al mondo e di minerali pregiati, molti ancora da scoprire, ma altrettanto traboccante di pestilenza cronica, malattie e povertà.
Mosango era un luogo indefinito, un punto perso tra boscaglia e savana. Sorto negli anni Cinquanta, come lebbrosario e sanatorio antitubercolare, con il tempo era stato trasformato in Centro sanitario regionale. Con i suoi settecento posti letto e la buona volontà delle suore italiane delle Poverelle, era un faro nella notte della malattia e della medicina. Illuminava la solitudine e le speranze di un territorio vasto più di cento chilometri quadrati.
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